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L'ALLIEVO
(APT PUPIL)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 22 marzo 1999
 
di Bryan Singer, con Brad Renfro, Ian Mc Kellan (Stati Uniti, 1998)
 
Tutto corn-flakes e mountain-bike come ogni ragazzino americano post- E.T. che si rispetti, Todd Bowden scopre tutto da solo ciò che - figuriamoci - l'FBI ed i servizi segreti israeliani ignoravano da sempre: il vecchio immusonito che lui osserva ogni mattina sull'autobus è un criminale di guerra nazista, addirittura il comandante di un campo di sterminio.

Piuttosto che denunciarlo, mosso da quella che appare dapprima come la semplice curiosità di un adolescente più sveglio della media (o, piuttosto, dal fatto che la sceneggiatura è basata su un romanzo di uno che sul fantasticare ci campa da sempre come Stephen King), il nostro furbetto (anche se, a dire il vero già a prima vista non proprio simpatico) incomincia a ricattare il vecchio: o mi racconti nei minimi dettagli tutti gli orrori che hai organizzato, oppure rivelo la tua vera identità. Il resto non è proprio difficile da immaginare. Non solo (vedi Messaggio del film) poiché il tarlo della perversione, delle pulsioni sadiche, del male con la maiuscola si nasconde a malapena nell'intimo dell'uomo; ma, ahimè per il film di un regista che ci aveva assolutamente convinto nelle sue opere precedenti, perché L'ALLIEVO è di una prevedibilità, ripetitività aggravata da semplicismo sconsolante.

Stranamente, per uno di quei paradossi che contraddistinguono il cinema come altre faccende, Singer sembrava molto più a suo agio con una sceneggiatura, delle situazioni, dei personaggi contorti e difficili da governare come quelli del precedente, acclamatissimo I SOLITI SOSPETTI. Là, su una faccenda di truffatori che si tradivano a vicenda prima di accorgersi di essere a loro volta ingannati da un misterioso genio cavernoso, Kayser Sose, al regista riusciva di stravolgere uno dei tanti neo-polizieschi (distaccati, ironici, postmoderni, alla Coen o Tarantino, per intenderci). Grazie ad una regia di grande virtuosismo, dei dialoghi taglienti ed arguti, una meccanica drammatica formidabile Bryan Singer riusciva a far pensare a certi film di Welles, o al mitico RASHOMON. Ad ogni nuova "verità" confessata da uno dei personaggi corrispondeva una modifica del racconto: che andava cosi ricomponendosi, come in un sapiente gioco di specchi in una dissertazione affascinante sulla manipolazione.

Qui, apparentemente, Singer opta per la modestia del racconto lineare. Ma, solo apparentemente: perché, in effetti, sostituisce al male fantastico, in definitiva ludico, innocuo e innocente (perché palesemente inventato, rappresentato dai quattro soliti balordi nei quali nessuno si identifica...) il Male supremo, inenarrabile, quello che conduce all'Olocausto. Se a questa presunzione della parabola aggiungiamo la scarsa credibilità, il casting approssimativo, lo schematismo, la risibilità di certe situazioni che dovrebbero essere sado-masochiste oppure horror avremo le ragioni di un film oltre che sbagliato, finisce per essere pure sgradevole.


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